Il nostro giardino fiorito. Finalmente è estate dopo sette mesi di neve e pioggia.
21 giugno, solstizio d'estate. Ore 21.30.
Tinki fa amicizia con le mucche!
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Chiese ortodosse - tesoro da salvare
La prematura e dissennata decisione di alcuni Stati che hanno preso atto dell’indipendenza del Kosovo proclamata unilateralmente da Pristina, tra i molti gravi danni che ha già procurato, vede in primo piano l’”annessione” dei “luoghi santi” dell’ortodossia serba. Si tratta di oltre cento chiese e monasteri (tra i quali solo quattro, compreso il Patriarcato di Pec, sotto protezione Unesco) sopravvissuti alla guerra e agli incendi appiccati dagli albanesi che, nell’insieme, ne avrebbero eliminato oltre un centinaio.
Anche le fragili “guarentigie” previste dal “piano” dell’inviato dell’Onu, Ahtisaari, per il patrimonio religioso e culturale – fondate sull’accordo e la collaborazione tra serbi e kosovari – hanno ormai perso la loro già discutibile validità. Esse, comunque, non solo non tenevano cono del carattere multireligioso della zona, ma non prevedevano alcun regime simile a quello, ad esempio, delle Basiliche patriarcali di Roma (immunità diplomatica, esenzione da vincoli, espropriazioni o tributi, ecc.) o a quello, riconosciuto anche dall’Ue, dei monasteri del Monte Athos in Grecia, che assicura il carattere esclusivamente religioso dei medesimi e la loro piena autonomia amministrativa. Sottoporre i luoghi di culto ortodossi alla sovranità del Kosovo, senza garantire loro uno status internazionalmente protetto, significa non garantirne la conservazione, la destinazione, nonché l’accesso per i sebi che resteranno e per i pellegrini. Uno status che dovrebbe, almeno, comprendere un sistema di finanziamento per l’esercizio del culto, il mantenimento e restauro degli edifici e pertinenze, il sostentamento del personale ecclesiastico e laico, il riconoscimento dei beni mobili e immobili di proprietà degli enti serbo-ortodossi, confiscati in gran parte dal regime comunista e restituiti alla Chiesa dal Parlamento serbo nel maggio 2006. Anche la “Costituzione” kosovara, adottata il 9 aprile e di imminente promulgazione, non garantisce in maniera efficace l’”eredità culturale e religiosa” serba (art. 9) e, pur dichiarando di voler tutelare l’autonomia religiosa e i monumenti sacri (art. 39), non contiene alcuna specifica disposizione sulla protezione dei luoghi santi ortodossi e sul finanziamento del relativo culto.
Pretendere, dopo aver loro strappato una parte del territorio per soddisfare il gruppo etnico albanese, che i serbi assicurino il finanziamento del culto ortodosso (compresa la ricostruzione di chiese e monasteri distrutti) nel Kosovo indipendente sarebbe solo un sostanziale riscatto al sentimento religioso e al significato “nazionale” che chiese e monasteri hanno per la Serbia. Grave sarebbe, inoltre, non vincolare le autorità kosovare al rispetto della destinazione al culto cristiano di chiese e monasteri che, nell’assai probabile ipotesi di un’ulteriore diminuzione della presenza di fedeli serbi, finirebbero, con la scusa della scomparsa dei praticanti, per essere adibiti ad usi profani (nel migliore dei casi musicali, nel peggiore per il ballo) o, come ci insegna il passato, trasformati in moschee.
Si aggiunga che l’indipendenza del nuovo Stato potrebbe indurre Pristina a sollecitare anche solo una piccola parte del clero ortodosso rimasto nel Kosovo perché chieda l”autocefalia” di una Chiesa ortodossa nazionale e, in caso di rifiuto da pare della Chiesa serba, ricorra al patriarca di Costantinopoli.
Stanti i pessimi rapporti tra quest’ultimo e quello della Russia, nota sostenitrice dell’integrità territoriale della Serbia, è facilmente ipotizzabile che succeda quanto già avvenuto nel Montenegro, dove una piccola Chiesa ortodossa locale, per rafforzare la distanza da Belgrado, ha già avviato un processo verso l’indipendenza “religiosa”.
Se non vuole accendere un nuovo conflitto religioso, l’Ue – alla quale passerebbe il “protettorato” Onu sul Kosovo – deve imporre a Pristina almeno il riconoscimento formale del legame strutturale organizzativo tra Chiesa serba e ortodossia kosovara e ottenere precauzionalmente dal Patriarcato di Costantinopoli una “presa d’atto” di tale riconoscimento. Una secessione “confessionale” sarebbe altrettanto grave di quella territoriale avallata da Usa e Ue con incomprensibile leggerezza, violando tutte le regole che la comunità internazionale si è da tempo imposta.
Anche le fragili “guarentigie” previste dal “piano” dell’inviato dell’Onu, Ahtisaari, per il patrimonio religioso e culturale – fondate sull’accordo e la collaborazione tra serbi e kosovari – hanno ormai perso la loro già discutibile validità. Esse, comunque, non solo non tenevano cono del carattere multireligioso della zona, ma non prevedevano alcun regime simile a quello, ad esempio, delle Basiliche patriarcali di Roma (immunità diplomatica, esenzione da vincoli, espropriazioni o tributi, ecc.) o a quello, riconosciuto anche dall’Ue, dei monasteri del Monte Athos in Grecia, che assicura il carattere esclusivamente religioso dei medesimi e la loro piena autonomia amministrativa. Sottoporre i luoghi di culto ortodossi alla sovranità del Kosovo, senza garantire loro uno status internazionalmente protetto, significa non garantirne la conservazione, la destinazione, nonché l’accesso per i sebi che resteranno e per i pellegrini. Uno status che dovrebbe, almeno, comprendere un sistema di finanziamento per l’esercizio del culto, il mantenimento e restauro degli edifici e pertinenze, il sostentamento del personale ecclesiastico e laico, il riconoscimento dei beni mobili e immobili di proprietà degli enti serbo-ortodossi, confiscati in gran parte dal regime comunista e restituiti alla Chiesa dal Parlamento serbo nel maggio 2006. Anche la “Costituzione” kosovara, adottata il 9 aprile e di imminente promulgazione, non garantisce in maniera efficace l’”eredità culturale e religiosa” serba (art. 9) e, pur dichiarando di voler tutelare l’autonomia religiosa e i monumenti sacri (art. 39), non contiene alcuna specifica disposizione sulla protezione dei luoghi santi ortodossi e sul finanziamento del relativo culto.
Pretendere, dopo aver loro strappato una parte del territorio per soddisfare il gruppo etnico albanese, che i serbi assicurino il finanziamento del culto ortodosso (compresa la ricostruzione di chiese e monasteri distrutti) nel Kosovo indipendente sarebbe solo un sostanziale riscatto al sentimento religioso e al significato “nazionale” che chiese e monasteri hanno per la Serbia. Grave sarebbe, inoltre, non vincolare le autorità kosovare al rispetto della destinazione al culto cristiano di chiese e monasteri che, nell’assai probabile ipotesi di un’ulteriore diminuzione della presenza di fedeli serbi, finirebbero, con la scusa della scomparsa dei praticanti, per essere adibiti ad usi profani (nel migliore dei casi musicali, nel peggiore per il ballo) o, come ci insegna il passato, trasformati in moschee.
Si aggiunga che l’indipendenza del nuovo Stato potrebbe indurre Pristina a sollecitare anche solo una piccola parte del clero ortodosso rimasto nel Kosovo perché chieda l”autocefalia” di una Chiesa ortodossa nazionale e, in caso di rifiuto da pare della Chiesa serba, ricorra al patriarca di Costantinopoli.
Stanti i pessimi rapporti tra quest’ultimo e quello della Russia, nota sostenitrice dell’integrità territoriale della Serbia, è facilmente ipotizzabile che succeda quanto già avvenuto nel Montenegro, dove una piccola Chiesa ortodossa locale, per rafforzare la distanza da Belgrado, ha già avviato un processo verso l’indipendenza “religiosa”.
Se non vuole accendere un nuovo conflitto religioso, l’Ue – alla quale passerebbe il “protettorato” Onu sul Kosovo – deve imporre a Pristina almeno il riconoscimento formale del legame strutturale organizzativo tra Chiesa serba e ortodossia kosovara e ottenere precauzionalmente dal Patriarcato di Costantinopoli una “presa d’atto” di tale riconoscimento. Una secessione “confessionale” sarebbe altrettanto grave di quella territoriale avallata da Usa e Ue con incomprensibile leggerezza, violando tutte le regole che la comunità internazionale si è da tempo imposta.
Il nostro crocefisso sui prati dei "Tamersc".
L'alba dalla finestra del rifugio Biella alla Croda del becco, m. 2.325.
Oltre 40.000 m3 di roccia dolomitica sono franati sul sentiero che porta al rifugio. Gli artificieri hanno fatto 128 buchi e venerdì faranno brillare i grandi massi che ostruiscono la strada.